Iatrogenesi e senso della cura
“Non esistono malattie, esistono solo malati”, ammoniva William Osler, uno dei padri della medicina moderna.
Eppure, in un tempo in cui la cura si è fatta algoritmo e protocollo, il rischio è di dimenticare che il corpo non è un codice da decifrare ma un linguaggio da ascoltare.
Le conseguenze iatrogene — quei danni provocati involontariamente dalle cure stesse — non sono scritte sul bugiardino. Sono scritte nella stanchezza che non passa, nella mente appannata, nel sistema immunitario che non ricorda più come difendersi. Sono ferite silenziose, spesso più profonde della malattia che si voleva guarire.
Il filosofo Ivan Illich, già negli anni ’70, parlava di iatrogenesi culturale: una società che trasforma la salute in dipendenza tecnica, fino a credere che il benessere si riduca a una prescrizione.
Ogni pillola che spegne un dolore, ogni protocollo che
standardizza la vita, ogni diagnosi che riduce l’essere umano a un codice ICD
nasconde un prezzo: il corpo che dimentica come guarire, l’anima che perde
fiducia, l’uomo che smarrisce il proprio centro.
Nietzsche scriveva: “Ciò che non mi uccide mi fortifica”, ma se il sintomo viene silenziato anziché compreso, ciò che avrebbe potuto renderci più forti diventa un’ombra che indebolisce. La cura, così, non guarisce: addomestica.
La Medicina Tradizionale Cinese (MTC) offre un paradigma radicalmente diverso. Il sintomo non è un nemico da tacere, ma un segnale vitale: un qi che si blocca, un organo che parla attraverso il dolore, un disequilibrio che chiede armonia.
Se la medicina occidentale tende a isolare e neutralizzare, la MTC cerca di riconnettere. Nel suo sguardo olistico, il corpo è un microcosmo che risuona con il macrocosmo: il fegato dialoga con la primavera, i polmoni con l’autunno, il cuore con l’estate.
Curare significa rimettere in moto il dialogo tra dentro e fuori, tra uomo e universo.
Come scrive il Nei Jing Su Wen: “Il saggio non cura la malattia, ma preserva la salute; non attende la sete per scavare il pozzo, né la battaglia per forgiare le armi.”
In questa visione, il farmaco non è rifiutato, ma collocato in un contesto più ampio: il corpo non è un meccanismo da riparare, ma un paesaggio da coltivare.
Heidegger ci ricordava che l’essere umano è “gettato nel mondo” e che il suo compito non è sfuggire al dolore, ma comprendere ciò che esso rivela. Il dolore, nella sua nudità, non è mai puro nemico: è un segnale d’essere, un appello che chiede ascolto.
Così, la vera guarigione non è mai solo soppressione del dolore, ma risveglio dell’ascolto.
La salute non è un possesso, ma un modo di abitare il mondo.
Heidegger ci insegna che vivere significa confrontarsi con il limite; Laozi ci ricorda che “chi conosce sé stesso è illuminato”.
La vera guarigione comincia quando impariamo ad ascoltare.
Vuoi riconoscerlo?
Bibliografia essenziale
- Illich,
I. Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Milano: Mondadori,
2021 (ried.).
- Unschuld,
P. U. Nan Jing – The Classic of Difficult Issues. University of
California Press, 2020.
- Zhou,
X., et al. “Integration of Traditional Chinese Medicine and Western
Medicine in the Era of Precision Medicine.” Journal of Integrative
Medicine, 2021.
- Heidegger,
M. Essere e tempo. Milano: Bompiani, 2021 (rist.).
- Laozi.
Dao De Jing. Trad. italiana, Einaudi, 2020.
- Wu,
L., et al. “Traditional Chinese Medicine and Systems Biology: A New
Synergy for Understanding Health and Disease.” Frontiers in
Pharmacology, 2022.

1 commento:
Tutto corretto ma come fare a riconoscere ciò che dentro di noi procura la malattia?
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