Omotenashi e la Medicina Tradizionale Cinese: l’arte invisibile della cura
"L’ospitalità non è un dovere. È una
grazia."
— Jacques Derrida
C’è una parola che in Giappone non si traduce, ma si vive: omotenashi. Dietro questo termine, spesso ridotto a “ospitalità” nelle traduzioni occidentali, si cela un universo sottile di presenza, dedizione, ascolto profondo e prevenzione del bisogno altrui prima ancora che venga espresso. Omotenashi è servire il tè al visitatore cogliendo il momento giusto, è disporre i sandali all’uscita rivolti nella direzione della porta, è saper restare invisibili nella presenza.
Nel mondo contemporaneo, dove il tempo si accorcia e la cura si contrae, l’omotenashi ci riporta a una cultura dell’anima, a un gesto terapeutico che precede la diagnosi e che accompagna ogni incontro. Curiosamente, questo principio vibra profondamente anche nella medicina tradizionale cinese (MTC).
In MTC, il terapeuta non è colui che “cura”, ma colui che accompagna la persona a ristabilire l’armonia con il Cielo e con la Terra. Ogni trattamento — sia esso Tuina, digitopressione, moxibustione o fitoterapia — non è mai applicato in modo meccanico, ma secondo l’ascolto silenzioso del polso, della lingua, del respiro dell’anima.
È un gesto poetico che trova eco nei versi del poeta giapponese Matsuo Bashō, che scrive:
“La cura non è un atto, ma un’attenzione. Non si dà qualcosa, si diventa qualcosa.”
Nel suo celebre viaggio verso il nord del Giappone, Bashō annotava il mutare della luce, la voce del vento tra i pini, il rumore delle gocce sul tetto: come il terapeuta MTC, egli coglieva i segni invisibili del mondo, per poi restituirli in forma di haiku, tre versi essenziali come tre agopunti.
“Senza amore non si guarisce. Senza ascolto non si
inizia neppure.”
— Christian Bobin
In questa consonanza tra oriente e occidente, l’omotenashi e la MTC si incontrano in un tempo sospeso, nel quale non è l’azione a contare, ma la qualità della presenza.
In Dante, questa presenza si fa celeste: Virgilio non guarisce Dante, ma lo accompagna. È guida, non protagonista. È l’archetipo del terapeuta MTC: non impone, ma svela.
Lo stesso vale per Hermann Hesse, che in “Siddharta” mette in bocca al suo protagonista una frase che potrebbe appartenere a un maestro di agopuntura:
“Ascolto ciò che mi racconta il mio corpo, ogni suono, ogni silenzio. Ogni cosa ha una voce.”
In un mondo che rincorre la performance, l’omotenashi ci riconduce alla cura dell’invisibile: ciò che non si vede, ma si sente; ciò che non si misura, ma trasforma. Un concetto affine all’idea taoista del wu wei 無為, il “non agire” che in realtà è l’agire perfetto, non forzato.
Anche Italo Calvino, nella sua “Lezioni americane”, parlava della necessità di una “leggerezza pensosa”, di una “precisione poetica” — qualità fondamentali del terapeuta in MTC, che sa che un punto stimolato in modo grossolano può disturbare, mentre una pressione armonica può risvegliare la memoria del corpo.
“Il fiore non compete con il fiore accanto.
Semplicemente fiorisce.”
— Zenrin-kushū
Questa frase, spesso riportata nei templi Zen, ci ricorda che il terapeuta non è in gara con la malattia. La sua missione è creare uno spazio in cui il paziente possa rifiorire. Omotenashi, in questo senso, è una disposizione dell’anima prima che un gesto.
In Tanizaki, ne “Libro d’ombra”, si legge come ogni ambiente tradizionale giapponese sia costruito non per impressionare, ma per accogliere silenziosamente. Lo stesso vale per una stanza terapeutica: non mostra forza, ma crea fiducia.
Infine, omotenashi e MTC condividono un principio profondo: l’arte della prevenzione. Prima che il sintomo emerga, già si è fatto qualcosa. Come dicevano i medici cinesi dell’antichità:
“Curare una malattia dopo che si è manifestata è come scavare un pozzo quando si ha sete.”
Nel tempo dell’indifferenza automatica, ritrovare l’omotenashi nella pratica terapeutica non è un atto nostalgico, ma una necessità. Un ritorno a un modo umano di essere nel mondo. Un ponte tra la saggezza antica e il bisogno moderno.
È l’arte della delicatezza, dell’attenzione piena, della cura che non si esaurisce nel farmaco ma si compie nel sorriso, nel gesto misurato, nella parola che rispetta il silenzio.
Come scrisse il poeta italiano Mario Luzi:
“Si può curare anche senza parole, con la sola luce di una presenza attenta.”
E forse, oggi più che mai, questa è la medicina di cui abbiamo bisogno.
Bibliografia e riferimenti
- Bashō, Lo stretto sentiero verso il profondo Nord, Einaudi.
- Tanizaki, Libro d’ombra, Bompiani.
- Hesse, Siddharta, Adelphi.
- Calvino, Lezioni americane, Garzanti.
- Bobin, La presenza pura, AnimaMundi.
- Luzi, Frasi e incisi di un canto salutare, Garzanti.
- Jacques Derrida, Of Hospitality, Stanford University Press, 2000.
- Unschuld, P. U. (2021). Medicine in China: A History of Ideas. University of California Press.
- Cheng, Xinnong. Chinese Acupuncture and Moxibustion. Foreign Languages Press, Beijing, ed. 2020.
- Kaptchuk, T.J. (2020). The Web That Has No Weaver: Understanding Chinese Medicine. McGraw-Hill Education.
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