Immaginate un corridoio asettico, luci fredde, nessun camice
bianco. Una voce sintetica vi accoglie:
“Benvenuto. Il Dottor 42 è pronto ad ascoltarla.”
È accaduto davvero. In Cina ha aperto il primo ospedale
interamente gestito dall’intelligenza artificiale: quarantadue “medici”
virtuali, oltre tremila pazienti al giorno, un tasso di errore dello 0,93%.
La notizia corre veloce sulla rete queste alcune della fonti:
In Cina il primo ospedale guidato dall’AI – Popular Science
In Cina il primo ospedale al mondo completamente gestito da intelligenze artificiali
Siti medici,
scientifici e non solo fanno nascere perplessità, domande e aprono giustamente un
dibattito.
Per molti, lo so, èil trionfo dell’efficienza, certo, ma la domanda
che inquieta non è quanto sbaglino, è che cosa perdiamo quando a
curarci non è più un essere umano.
Ci fideremmo di raccontare un dolore, una paura, un dubbio a un algoritmo? Ci
affideremmo a una macchina che ci guarda senza vederci, ci ascolta senza
sentire, ci cura senza sapere cosa significhi soffrire?
La medicina moderna è attratta dal mito della precisione:
“Più dati, meno errori” – questa è già una realtà consolidata in ogni struttura
sanitaria.
Già Albert Einstein ammoniva:
“Non tutto ciò che può essere contato conta, e non tutto ciò
che conta può essere contato.”
La macchina sa contare, ma non sa comprendere.
Come scriveva Martin Heidegger, «la scienza non pensa»; essa calcola, misura,
ma non si interroga sul senso.
L’intelligenza artificiale può analizzare milioni di dati
clinici, ma non può cogliere il silenzio di chi soffre.
Il rischio è che l’efficienza diventi idolatria.
Hannah Arendt lo aveva previsto: “Il pericolo è che l’uomo diventi superfluo.”
Quando deleghiamo la cura alla macchina, rischiamo di
rendere inutile proprio ciò che ci rende umani: l’empatia, la
compassione, la presenza.
La grande tradizione ippocratica non ha mai ridotto la
medicina a una scienza del corpo.
Ippocrate scriveva: “Là dove si ama l’arte della medicina, si ama anche
l’umanità.”
E secoli dopo, William Osler – fondatore della medicina
moderna – ricordava: “Il buon medico cura la malattia; il grande medico cura il
paziente che ha la malattia.”
Entrambe le frasi ci ricordano che la medicina non è solo
trattamento, ma relazione.
Curare non significa solo “intervenire su un corpo”, ma “stare accanto a una
persona”.
Carl Gustav Jung sottolineava: “Conoscere tutte le teorie,
padroneggiare tutte le tecniche, ma toccare un’anima umana è un’altra cosa.”
L’algoritmo può processare teorie e tecniche, ma non può
toccare un’anima e questo fa la differenza tra guarire e curare.
Il rapporto medico-paziente è fondato sulla fiducia, un atto
di vulnerabilità reciproca. Paul Ricoeur la definiva «un dono di sé che si
espone al rischio della delusione».
Una macchina può essere precisa, ma non può essere
affidabile in senso umano, perché non può rischiare nulla.
Come scrive Emmanuel Lévinas: “Essere responsabile significa
rispondere di un altro, anche della sua responsabilità.”
La macchina non risponde. E quando sbaglia, non prova
rimorso. Noi sì.
La medicina è anche una etica della presenza, un
luogo dove chi cura e chi è curato condividono la stessa fragilità.
Come scriveva Viktor Frankl, psichiatra sopravvissuto ai
campi di concentramento: “Il medico non deve solo chiedersi che cosa manca al
corpo, ma che cosa manca alla vita del paziente.”
Un algoritmo può rilevare una carenza di ferro, ma non una
carenza di senso.
Nella prospettiva pedagogica, la cura è un processo
trasformativo. Il grande educatore Paulo Freire scriveva: “Nessuno educa
nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la
mediazione del mondo.”
La stessa logica vale per la medicina: nessuno guarisce
da solo, e nessuno guarisce qualcun altro senza entrare in relazione. L’intelligenza
artificiale non entra “insieme” a noi nel processo: osserva, calcola, ma resta
fuori dal campo dell’esperienza.
Edgar Morin, riflettendo sulla complessità, affermava: “Conoscere
non è solo accumulare dati, ma comprendere i legami che uniscono.”
Il legame – ciò che unisce medico e paziente – è l’elemento che nessun
algoritmo può simulare.
Nelle tradizioni orientali, la guarigione è sempre stata un
atto che coinvolge corpo, mente e spirito.
Nel Tao Te Ching, Lao Tzu scrive: “Chi conosce gli altri è sapiente; chi
conosce sé stesso è illuminato.”
E nel Sutra del Loto si legge: “Curare è risvegliare
la mente alla compassione.”
La medicina artificiale, invece, conosce tutti i
dati, ma non conosce sé stessa. È priva di coscienza, e dunque di compassione.
Il maestro zen Thích Nhất Hạnh insegnava: “Mantenere il
corpo in salute è un atto di gratitudine verso l’intero universo: gli alberi,
le nuvole, tutto.”
La salute, allora, non è solo un equilibrio biochimico, ma
un atto di consapevolezza e interconnessione.
Un sistema automatizzato non può provare gratitudine, né riconoscere la
sacralità dell’esistenza.
Lo ricorda il poeta sufi Rumi: “La ferita è il luogo in cui
la luce entra in te.” La macchina ripara la ferita, ma non lascia entrare la
luce.
Eppure, proprio in Cina – terra dove affonda le radici una
delle più antiche e sagge tradizioni di guarigione è nato il primo ospedale governato da algoritmi. Questo apre un dubbio ancora più profondo, quasi
paradossale. Ricordo di come i medici cinesi facessero ancora praticare taichi e qigong durante la sarscovid 19...
Come può una cultura che ha insegnato al mondo che “l’uomo e il Cielo sono
un’unica cosa” affidarsi a una medicina che non conosce né Cielo né uomo?
Nella Medicina Tradizionale Cinese (MTC), il corpo non è mai
separato dallo spirito.
Il Huangdi Neijing, il Classico di Medicina Interna dell’Imperatore
Giallo, afferma: “Il medico superiore cura lo spirito; il medico medio cura
l’energia; il medico inferiore cura il corpo.”
Se questa saggezza antica riconosce che la guarigione nasce
dall’armonia interiore e dall’equilibrio del Qi, allora la domanda diventa
inevitabile: un’intelligenza artificiale, per quanto perfetta, può davvero
curare lo spirito?
La MTC insegna che la malattia è una disarmonia tra Yin e
Yang, tra interno ed esterno, tra emozione e corpo. Essa non cerca di
sopprimere il sintomo, ma di ricomporre l’equilibrio.
Il medico, Sun Si Miao – considerato il “re della medicina
cinese” – diceva “si deve prima di tutto coltivare la virtù della compassione.”
Una macchina non può coltivare nulla, perché non ha un
centro da cui la virtù possa germogliare.
E qui nasce il dubbio che dà comunque senso a questa
riflessione: forse proprio dove la saggezza antica più ha compreso la totalità
dell’uomo, oggi la tecnologia mette alla prova il confine stesso dell’umano.
È un passaggio epocale: dalla medicina del Tao alla
medicina dell’algoritmo?
La domanda rimane sospesa: possiamo ancora parlare di cura quando manca il
Cuore del Cielo?
Ciò che è in gioco non è solo l’etica, ma l’ontologia della
cura.
Che cosa significa allora essere curati?
Hans-Georg Gadamer, nel suo saggio Il mistero della salute, affermava: “La
salute non è qualcosa che si possiede, ma un modo di essere nel mondo.”
La medicina algoritmica riduce la salute a una serie di
parametri, ma la salute è anche armonia, dialogo interiore, equilibrio
relazionale.
Il medico – come il pedagogo o il terapeuta olistico – non aggiusta un
ingranaggio, ma accompagna un processo di reintegrazione.
Confucio scriveva: “Colui che vuole governare bene deve
prima governare sé stesso; così anche colui che vuole guarire deve prima
conoscere il proprio cuore.” Un medico senza cuore, dunque, è un ossimoro. La
tecnica può sostituire la mano, ma non il cuore.
Il progresso non è il nemico.
L’intelligenza artificiale può diventare uno strumento
straordinario di supporto, diagnosi, prevenzione, ma solo se resta strumento,
non soggetto.
Romano Guardini ricordava: “L’uomo è chiamato non a dominare
la tecnica, ma a governarla nel rispetto dell’essere.” Il futuro della medicina
non è l’esclusione dell’umano, ma la sua integrazione consapevole con la
tecnologia.
L’AI può migliorare la precisione, ma solo l’uomo può dare significato
alla cura.
E come scriveva Viktor Frankl: “Chi ha un perché per vivere
può sopportare quasi ogni come.” La macchina sa il “come”, ma non conosce il
“perché”.
Forse la domanda più profonda non è “quanto l’AI sbaglia”,
ma “che cosa siamo disposti a perdere per un decimale di precisione in più”.
Emily Dickinson scriveva: “Un cuore è più grande di
qualsiasi teoria.”
E il maestro zen Dōgen affermava: “Studiare la via è
studiare sé stessi. Studiare sé stessi è dimenticare sé stessi. Dimenticare sé
stessi è essere illuminati dalle diecimila cose.”
La macchina studia tutto, ma non sé stessa. Il medico umano,
invece, sa di poter sbagliare, e proprio per questo può essere compassionevole.
È nella fragilità condivisa che nasce la vera cura. Perché, in fondo, la
medicina non è solo guarigione. È presenza che accompagna, sguardo
che vede, cuore che sente.
E un medico senza cuore – per quanto infallibile – non guarisce, aggiusta.
Ma non libera.
cosa ne pensate?
Bibliografia essenziale
- Ippocrate,
Aforismi.
- William
Osler, Aequanimitas and Other Addresses.
- Carl
Gustav Jung, Psicologia e alchimia.
- Viktor
Frankl, L’uomo in cerca di senso.
- Hannah
Arendt, Vita activa.
- Martin
Heidegger, Che cosa significa pensare?
- Paul
Ricoeur, Sé come un altro.
- Emmanuel
Lévinas, Totalità e infinito.
- Paulo
Freire, Pedagogia degli oppressi.
- Edgar
Morin, La testa ben fatta.
- Hans-Georg
Gadamer, Il mistero della salute.
- Romano
Guardini, Lettere dal lago di Como.
- Albert
Einstein, Scritti e pensieri.
- Lao
Tzu, Tao Te Ching.
- Sutra
del Loto (tradizione Mahāyāna).
- Thích
Nhất Hạnh, La pace è ogni passo.
- Jalāl
al-Dīn Rumi, Mathnawī.
- Confucio,
Dialoghi.
- Dōgen,
Shōbōgenzō.
- Emily
Dickinson, Poesie complete.
- Huangdi
Neijing (Classico di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo).
- Sun
Si Miao, Prescrizioni di mille ori per le emergenze.